Anna Valeria Borsari, L’orto privato del custode del museo, parte seconda, 1978
Anna Valeria Borsari
L’inizio degli anni Ottanta per più motivi è stato contrassegnato dall’evidenziazione di mutamenti epocali, già avviati e presenti da tempo, che in modo irreversibile hanno condizionato il nostro modo di vivere, la nostra cultura, e di cui si sono occupati vari sociologi. Nel 1979, a seguito della morte di Marcuse, Gian Enrico Rusconi, ricordando come da un decennio fosse scomparso anche Adorno, scriveva sulle pagine culturali del quotidiano “Avanti!”: “Non ci si inganni circa il significato delle commemorazioni “francofortesi” di questi giorni. La scomparsa recente di Marcuse e il decimo anniversario della morte di Adorno sono l’occasione di un rituale che sancisce un po’ tardivamente l’importanza di questi intellettuali”(1); d’altronde il celebrare, il “recuperare”, ed allo stesso tempo il cancellare, inglobando, i soggetti scomodi, è tipico del nostro sistema culturale (2). Per quanto poi le problematiche sulla razionalità, la soggettività, la natura del potere, di cui dopo gli autori della scuola di Francoforte si sono occupati Foucault, Chomsky, Baudrillard e vari altri, abbiano comunque circolato nonostante ambiguità e fraintendimenti, le ipotesi più audaci sulla dialettica ragione-potere sono rimaste ipotesi anche a vari decenni di distanza, in quanto il sistema ha saputo incassare “imperterrito le critiche più feroci ai suoi tratti repressivi e autoritari”, ed in definitiva, come rilevava sempre Rusconi, “‘crisi e critica’, il binomio che avrebbe dovuto essere esplosivo per il sistema esistente, sono diventate merce della sua merce”; il cosiddetto capitalismo avanzato ha saputo infatti adeguarsi ai tempi, e grazie a varie forme di controllo sociale è riuscito a vincere la sua battaglia sottraendo i meccanismi di funzionamento della società contemporanea “alla conoscenza dei soggetti collettivi che, potenzialmente, sarebbero in gradi di mutarli”(3).
Si può spiegare probabilmente così il fatto che l’arte visiva, che ha sempre avuto la potenzialità di comunicare con immediatezza ad un gran numero di persone, influenzandole anche ad un livello emotivo – e per questo nella nostra cultura per secoli è stata utilizzata e ben controllata dalla Chiesa Cattolica, come in seguito lo è stata dai vari regimi totalitari -, dopo aver ritrovato un proprio potenziale sovversivo con movimenti come Fluxus ed il concettuale, dall’inizio degli anni Ottanta sia stata fatta rientrare nei ranghi di una sua tradizionale autonomia, lontana da ogni interferenza con le questioni del mondo. In questo modo l’arte è divenuta del tutto inoffensiva rispetto al capitalismo globale che si era da tempo avviato, anzi è divenuta la sua merce più preziosa.
Per giungere a questo si è archiviata l’arte concettuale in modo tanto rapido quanto brutale, attribuendo allo stesso termine “concettuale” una connotazione negativa, per tornare ad un uso tradizionale della pittura peraltro ben lontano dalla smaterializzazione che il Postmoderno in quegli anni proponeva; al contempo proprio nel Postmoderno si son trovate le giustificazioni ad una rinuncia sia all’innovazione sia all’intromissione in questioni sociali e politiche. Francesco Matarrese ebbe il coraggio di inviare un telegramma ove annunciava di uscire dal mondo dell’arte in quanto ormai totalmente subordinato ad interessi economici; altri sono stati cancellati o sono stati emarginati. Diversi artisti concettuali sono poi stati “recuperati” verso la fine degli anni Novanta, quando già, senza scalfire quel sistema dell’arte che si era nel frattempo ormai consolidato, artisti di una più giovane generazione avevano ritrovato le loro modalità espressive.
Non era comunque facile agli inizi degli anni Ottanta avere un’idea chiara di quello che stava avvenendo: in un numero della rivista “Quindi” dell’ottobre 1982, reperito nel mio archivio, scritti di Accornero, Bifo, Cacciari, Gallino, Perniola e Verdiglione (autorevole psicanalista prima di essere travolto da pesanti vicende giudiziarie) possono evidenziare come vi fosse la consapevolezza di essere in un periodo di grandi cambiamenti, ma mancasse una visione complessiva di quanto accadeva nei vari ambiti del contesto culturale e sociale. Bifo, senza nemmeno ricordare fatti recenti come la drammatica chiusura di radio Alice e la durissima repressione del movimento studentesco del 1977, nel quale aveva avuto un ruolo importante, notava come la generazione del ’68, che era stata anche la sua, avesse “la sensazione sempre più forte di aver fatto la cosa più importante della propria vita”, e che arrivati a quel punto l’alternativa poteva essere solo tra un “ci si vende, quindi c’è la depressione”, oppure assumere “l’atteggiamento della sfida al successo”; rilevava inoltre come si stesse diffondendo l’idea che il mondo in cui si viveva fosse “il migliore dei mondi possibili”, mentre per lui si trattava di un mondo con il quale bisognava “non avere nulla a che fare”(4). Nelle pagine precedenti della stessa rivista Mario Perniola osservava come la situazione sarebbe apparsa “assai meno confusa” se si prendevano in considerazione alcune teorie riguardanti i mass-media, che per Mc Luhan erano un mezzo capace di trasformare il mondo, la realtà, e per autori come Boorstin, Baudrillard, Berger conducevano invece ad una totale de-realizzazione, mentre secondo un’ulteriore teoria, che a Perniola sembrava porre in modo più radicale il problema del rapporto tra sapere e società, ed era reperibile in un saggio di Jacques Attali, gli stessi mass-media potevano esser ricondotti ad oggetto, “cosa”(5). Quando il grande sviluppo tecnologico ha dilatato le possibilità della comunicazione di massa, Perniola ne ha poi analizzato a fondo le dinamiche; comunque già dalla seconda metà degli anni Sessanta si era interessato ai condizionamenti di tipo economico subiti dall’arte visiva, risalendo all’Antica Grecia ed al Rinascimento per individuare le origini di quella compromissione del fare artistico che caratterizza la società capitalistica (6), e questo tema, divenuto sempre più rilevante con la commistione tra arte e comunicazione, è stato da lui sviluppato in pubblicazioni ove non ha risparmiato nemmeno chi ha incrementato la bolla speculativa del mondo dell’arte ben prima degli anni Ottanta.
Vari elementi che per un certo periodo, coesistendo, hanno potuto sovrapporsi e confondersi, debbono essere però chiariti, ed i condizionamenti subiti dalla cultura, anche con un uso strumentale dei mass-media, debbono essere ben distinti dalle idee espresse dal Postmoderno. Se poi i condizionamenti esercitati da parte della società capitalistica hanno dei precedenti in tempi lontani, anche le idee che tra il finire degli anni Settanta e gli anni Ottanta hanno avuto grande risonanza con il cosiddetto Postmoderno vengono dal passato. Abbastanza recentemente Elio Franzini ha notato che oggi il Postmoderno rischia quasi di esser cancellato, liquidato come un errore di quegli anni (7), ma che, come già sosteneva Welmer, “debolezza e discontinuità appartengono anche alla tradizione moderna: solo quando ‘scoppiano’ si usa chiamarle postmoderne”(8). Sfumano quindi le nette contrapposizioni tra moderno e postmoderno: “i giochi linguistici attraverso i quali, secondo Lyotard, la postmodernità ha ucciso le grandi narrazioni moderne, erano pur sempre nel contesto di una frammentazione storica della storia” (9); il dubbio, l’incertezza, la messa in crisi di verità dogmatiche si trovano anche nel Cinquecento e nel Seicento, e non solo nello scetticismo di un Montaigne, ma anche negli scritti dello stesso Cartesio, che nel suo Discorso sul metodo annotava: “reputavo falso ciò che era solo verosimile”. Cosi, come osserva sempre Franzini, nello stesso moderno si presenta una duplicità che pone da un lato la coscienza di un io pensante, di uno sguardo soggettivo, dall’altro un mondo che non si può affrontare a partire da una verità assoluta, “bensì va visto in un quadro di verità relative che si contraddicono” (10).
Come allora potevo rilevare, anche dagli studi di logica e di linguistica emergevano elementi che minavano sistematiche certezze, e le stesse ricerche scientifiche, in particolare nell’ambito della fisica quantistica, portavano a questo processo. La concezione di Arte che ci perveniva dal Cinquecento, con le sue eterne certezze, i suoi universali ed assoluti, era però sostanzialmente ancora in vigore, anzi, secondo le ultime tendenze l’arte sempre più veniva circoscritta nella propria apparente autonomia, mentre avrei voluto reintrodurla in un più ampio contesto, a confrontarsi con filosofia, scienza, questioni sociali, tra le cose del mondo, come era stata nel primo Rinascimento, quando gli artisti potevano essere oltre che orafi ed architetti anche matematici, scienziati, filosofi, e come Leonardo l’avrebbe voluta. Così con una citazione di Leonardo si apriva un convegno che, con Ginestra Calzolari e la collaborazione di alcuni amici, sentii la necessità di organizzare nel 1984: Ipotersi d’artista, che recava – in termini più provocatori che utopici, visti i tempi – il sottotitolo: studi ricerche idee e progetti per modificare il mondo. Il convegno intendeva presentare diverse interpretazioni di quanto stava avvenendo in quegli anni, non si sentì però l’esigenza di invitare quanti stavano promuovendo le nuove tendenze pittoriche, in quanto già – tra polemiche – le loro teorie erano ampiamente divulgate. Filiberto Menna, in un intervento iniziale, notava come per parlare di cambiamento, di modificazione del mondo, si dovesse necessariamente considerare il “problema del rapporto tra la comunicazione artistica (e in genere intellettuale) e la comunicazione sociale di massa”(11); e rilevava che mentre le avanguardie erano nate “proprio con l’intenzione esplicita di mettere in crisi la logica dell’informazione corrente e di tagliare i fili della comunicazione borghese”, ed anche nel comportamentismo, nelle correnti analitiche e concettuali vi era stato un analogo rifiuto di certi modelli, in quegli anni la situazione era molto diversa in quanto per le più recenti espressioni artistiche il rapporto con la comunicazione di massa non era più oppositivo, bensì “di tipo mimetico e adesivo”, come in parte era già stato anche con Pop Art e Graffitismo. Quindi in quel nuovo contesto si poteva solo tentare di portare qualche “elemento di contraddizione”, oppure cercare di coinvolgere le Istituzioni (12). Anche Pierluigi Tazzi rilevava come l’arte nella cultura moderna fosse sempre stata sostanzialmente un’espressione di dissenso, e come questo ormai non fosse più possibile in quanto per dissentire ci si deve rifare a delle ideologie, ma le ideologie erano cadute: il “modello ideologico” era stato sostituito dal “modello economico”; così ci si poteva ancora contrapporre solo “in maniera obliqua, attraverso le stile”(13). A conclusione del convegno Claudio Costa, allargando la problematica a una più generale visione della condizione umana, notava che ci si trovava di fronte unicamente a “‘segni-messaggi’ elaborati grossolanamente da un sistema culturale legato al valore ‘scambio-denaro’, in cui l’unica molla esercitata sulla personalità degli individui è quella della competitività …”, mentre superando le contrapposizioni “non esisterebbero più poteri, ma solo il desiderio del ‘piacere felice’ e si potrebbe contemporaneamente ricevere e restituire, dare e prendere, costruire e ricostruire”(14). Alcuni dei vari ulteriori contributi si ponevano in termini più creativi che critici: Patrizia Vicinelli e Ginestra Calzolari leggevano dei loro testi poetici; io, nel mio intervento, Parlar di rose anche quando non sono in giardino (frase tratta dai Nouveaux Essais di Leibniz), mi ricollegavo a concezioni reperibili in Democrito e nel De rerum natura di Lucrezio prima che nel Postmoderno, per le quali anche il mondo creato dai segni dell’uomo ha una sua parallela valenza e “realtà”, concludendo il discorso con un’ipotetica foto di gruppo, in cui inserivo oltre ai presenti anche qualche assente e me stessa, in un autoscatto; e riconducevo così il tutto ad una sorta di opera, o finzione.
Su un numero (106) di “Alfabeta” del 1988, dedicato in gran parte a tematiche riguardanti moderno, postmoderno, nuove tecnologie e smaterializzazione, ove pubblicavo tra le “Prove d’artista” il mio Paesaggio, da una serie di dipinti perduti, Thomas Maldonado ironicamente osservava come “dopo il post-industriale, il post-moderno, la post-histoire, il post-strutturalismo” si stavano facendo strada “la de-costruzione, la de-secolarizzazione, la de-strutturazione, la de-industrializzazione, la de-regulation”, ed appunto la “de-materializzazione”, che stava riscuotendo grande successo; ma notava anche che il trasferire un termine usato nell’ambito della microfisica all’ambiente percepibile dai nostri sensi comportava qualche problema, ed anche se da tempo si era abbreviato il ciclo di vita dei prodotti non era affatto evidente che si procedesse verso una riduzione dei cosiddetti oggetti materiali, in quanto ogni nuovo prodotto dava origine a una serie di nuovi sottoprodotti, ed alla fine la quantità delle presenze oggettuali risultava in aumento (15).
Molti erano comunque gli elementi realmente od apparentemente contradditori in quel periodo, e gli effetti di quanto si intendeva proporre potevano essere del tutto opposti a quanto previsto. Ricordo che sempre nel 1988 una popolarissima trasmissione televisiva, Indietro tutta!, che intendeva stigmatizzare programmi sempre più commerciali esibendo le ragazze Coccodé e pubblicizzando un inesistente Cacao Meravigliao, portò invece ad effetti indesiderati dagli autori, in quanto per quegli stessi condizionamenti che già la televisione e la pubblicità avevano attivato, molte ragazze hanno ambito a ruoli di quel tipo ed a lungo nei supermercati e nelle drogherie la gente ha chiesto di acquistare il Cacao Meravigliao. Analogamente operazioni o opere che intendevano contrapporsi al sistema dell’arte vi sono poi rientrate perfettamente, spesso anche per la loro intrinseca ambiguità; e la provocazione è divenuta un ottimo strumento per attirare l’attenzione dei mass- media e quindi pubblicizzarsi.
La “critica” ha perso molte sue potenzialità. Ora tutto può convivere nella nostra arte globalizzata senza particolari giustificazioni, senza bisogno di alcun riferimento a contesti culturali tra loro anche diversissimi ed alle intenzioni degli autori. Le fiere d’arte, moltiplicatesi a dismisura, sono divenute fondamentali per decretare l’importanza delle opere d’arte e veicolarle in tutto il mondo. In questa logica anche le gallerie che vorrebbero fare un programma di qualità si trovano a dover competere con innumerevoli altre nella comunicazione mass-mediatica e nella presenza in costose fiere internazionali, e quindi debbono sottostare a regole di mercato. La comunicazione visiva si è ampliata nello sconfinamento tra arte, pubblicità e informazione, come vi è stato uno sconfinamento tra vero e falso, storia e narrazione, realtà e rappresentazione, in un proliferare di immagini che tutti posso produrre sui vari social. Non solo pochi e anziani artisti irriducibili, ma anche artisti più giovani e di successo concordano sul fatto che non si riesce a individuare una evoluzione nell’arte degli ultimi decenni, non si riesce a ricostruirne una storia. Probabilmente la situazione è sfuggita di mano anche a chi pensava di poter controllare il sistema. Con i “post” e i conseguenti eventuali nuovi inizi non si può più rimandare solo a Moderno, Postmoderno e agli anni Ottanta, ma anche all’attacco alle torri gemelle, alla pandemia dovuta al Covid, alle recenti guerre, alla “postcritica”, alla “post”umanità e quant’altro. In un editoriale su “La Repubblica” Ezio Mauro scrive: “nel mondo finito fuori controllo anche il futuro non è più quello di una volta e sfugge a qualsiasi previsione, perché nell’esplosione della realtà sono saltati tutti i criteri di giudizio e i codici di valutazione degli avvenimenti; ma è possibile rintracciare la vera misura della crisi cercandola nell’inventario delle cose perdute”(16); difficilmente si può però risalire alle cause di molti fenomeni, e i tanti cambiamenti ci hanno cambiati, hanno cambiato i nostri criteri di valutazione. Dopo tutto quindi, o meglio prima di tutto, ci sarebbe una storia da cui non si potrebbe prescindere per comprendere il presente ed ipotizzare il futuro, ma che difficilmente si può ricostruire. Nel bene o nel male, oltre l’entropia il cambiamento può essere prodotto anche dal caos.
- G. E. Rusconi, Come si risponde oggi alla sfida lanciata dalla Scuola di Francoforte, Dieci anni dopo la morte di Adorno scompare anche Herbert Marcuse, “Avanti!”, Domenica 5 agosto, 1979, Cultura, p. I.
- Mario Perniola notava come lo stesso Guy Debordes fosse stato vittima di quell’operazione che già i situazionisti avevano definito di “ricupero”, “quando nel 2009 è stato proclamato dal governo francese ‘tesoro nazionale’”, cfr. M. Perniola, Perché oggi il vero eroismo significa vivere nascosti, “La Repubblica”, 9 febbraio 2014, p. 43
- G. E. Rusconi, Come si risponde oggi alla sfida .., cit.
- Bifo, Fare silenzio, fuori dal gioco, “Quindi”, ottobre 1982, p. 37
- M. Perniola, Dispaccio n. 2, i tamburi del Candomblé, “Quindi”, cit., p. 35 e p. 36, con rifermento a J. Attali, I tre mondi, per una teoria del dopo crisi, ed. Spirali, Milano 1981
- Cfr. M. Perniola, L’alienazione artistica, ed. Mursia, Milano 1971
- E. Franzini, Moderno e postmoderno, un bilancio, ed. Cortina, Milano 2018, p. 13
- A. Welmer, La dialettica moderno-postmoderno, la critica della ragione dopo Adorno, trad. it., Unicopli, Milano 1987 , in E. Franzini, Moderno e postmoderno, cit., p. 16.
- Ibid., p. 18
- Ibid., p.30.
- F. Menna, Modificazioni, in Ipotesi d’artista, atti del convegno, a cura di A.V. Borsari e G. Calzolari, ed. Nuova Alfa, Bologna 1984, p. 14
- Ibid., pp. 15 – 17
- P. Tazzi, La caduta del dissenso, appunti e schemi, in Ipotesi d’artista, cit., pp. 98-99
- C. Costa, Tracce sull’dea di relazione tra la tensione e la distanza (1979- ’84), in Ipotesi d’artista, cit., pp. 103 – 104
- T. Maldonado, Cosa c’è di vero nella de materializzazione?, “Alfabeta”, n. 106, 1988, alfa bis 2, pp. II e III
- E. Mauro, Inventario delle cose perdute, “ La Repubblica”, 23 ottobre 2023, p. 35